
A richiesta, un piccolo appunto sul cibo americano, a latere del mio viaggio ad Atlanta e New York.
Se si va sul tradizionale, non ci si può lamentare. La carne è buona, e pazienza se per ogni bistecca sia venuto giù un pezzo di Artide. Gli hamburger li sanno fare, quelli europei al confronto sono solo delle eteree immagini platoniche. Oggi peraltro ho voluto provare un altro classico, il fish & chips. Niente di cui lamentarmi.
Purtroppo però ho dovuto pasteggiare a tap water, perché per la Coca-Cola si è scatenata la solita bagarre. Ne ho ordinata una e prima che il cameriere (un armadio nero) se ne andasse troppo lestamente per completare la comanda, l’ho bloccato per imporgli le mie inflessibili, umilianti condizioni, come i francesi a Versailles.
Per prima cosa, per stabilire da subito un clima di reciproca fiducia, ho precisato che per me Pepsi e Coca non sono la stessa cosa. Dopodiché ho sciorinato la lista delle condizioni: Coca da bottiglia di vetro o lattina, fredda ma non gelata, no ghiaccio, sì fettina di limone.
Sorprendentemente, il cameriere ha annuito e io, insospettito, ho rilanciato anche con la clausola atomica: mi porti la bottiglia o la lattina, che la Coca me la verso da solo. Qui devo precisare un punto: questa condizione la impongo anche in Europa, ma non tanto per sfiducia, semmai perché aprirmi la Coca e versarmela da solo fa parte del mio rito. La Coca Cola è come l’aragosta, dobbiamo guardarci negli occhi prima dell’ultimo appuntamento e vogliamo accompagnarla personalmente nel suo cammino verso il paradiso delle aragoste. Per la Coca Cola è esattamente lo stesso, ci dobbiamo conoscere prima, non è ammissibile che io mi beva un bicchiere uscito dalla cucina che proviene da chissà chi.
Ad ogni modo, il cameriere ha replicato che non era possibile ed io allora, per difendere l’ortodossia delle mie scelte, ho deviato per la tap water. PS ho lasciato la mancia