Il Flauto Magico

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Non mi sarei mai sognato di criticare il Flauto Magico, tuttavia, quando si va all’Opera si deve anche tener conto dell’allestimento e della scenografia, che purtroppo nel caso in questione valgono da soli il rimborso del biglietto.

Già a suo tempo (Berlino, 1996) ero rimasto perplesso per una Carmen ambientata in un lager nazista; ma, dopo l’esperienza di stasera, ho finito con rivalutare divise SS e panzer tedeschi, che al confronto di questo Flauto sembravano festosi quanto un Gay Pride. Ma non divaghiamo.

Il Primo Atto si apre con della gente vestita da insaccato (e con tanto di maschera antigas) intenta a piegare delle coperte come si farebbe alla fine di un qualunque campeggio scout. Però, siccome siamo ancora all’inizio dell’Opera, evito di precipitare le conclusioni, e mi limito a brontolare moderatamente girando i pollici.

Con l’inizio della scena vera e propria cambia l’allestimento e, surprise surprise, tutti i personaggi si presentano infarinati dalla testa ai piedi. Non si capisce chi faccia cosa (rectius: chi canti cosa), sono indistinguibili come gli spermatozoi in un celebre film ad episodi di Woody Allen. Già i nomi dei protagonisti, Tamino e Pamina, ricordano dei presidi medico-chirurgici, ma così il senso di anestesia è totale.

Finisce il primo Atto e l’unica riflessione artistica sollecitata da tanta scenografia è fiondarmi nel Foyer prima che finiscano i sandwich. Poi, terminata la pausa, torno al palchetto armato di Santa Pazienza e che trovo, invece? Horreur, il secondo Atto è ambientato nella sala d’attesa del Pronto Soccorso dell’ospedale di Ixelles, dove si intravedono 3 signore che si stanno facendo mungere (avete letto bene) ed inizia una sequenza di storie dolorose narrate in inglese, che niente hanno a che fare con il libretto. Mozart è sparito. Mi guardo in giro con il sospetto che la Monnaie sia diventata una Multisala, e che io sia entrato nella sala sbagliata. Ma vedo che anche altri nei palchetti si rigirano nervosi, quindi il problema non può essere solo mio.

Per fortuna ricomincia la musica (che però continuerà ad essere inframmezzata, di tanto in tanto, da ennesime storie dolorose) ed entrano personaggi e figuranti, vestiti questa volta con sacchi color giallo paglierino, a metà tra preservativo e fialetta delle analisi. La Regina della Notte si è messa una parrucca bionda da sciampista, e conciata così canta la celebre Aria della Vendetta. Non si può vedere.

Dopo 20 minuti di Secondo Atto decido che forse sarebbe meglio andarsene, anche perché a quest’Opera ho invitato amici con un figlio minorenne, il quale mi sta ora guardando spaesato e con gli occhi sbarrati. Scendiamo di nuovo nel Foyer ed ho il tempo di fare due chiacchiere con un gentile steward, il quale mi informa che lo scemografo (sic) dell’opera è pure italiano e che la di lui sorella avrebbe scritto i testi che non c’entravano niente. Tutto molto innovativo, per carità, ma questi non mi hanno neanche fatto vedere il minimo sindacale, e cioè Papageno vestito da uccello, ecco.

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